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LA VENDEMMIA

di Kinta Beevor  ♦

Una volta feci in modo che il mio viaggio coincidesse con la raccolta dell’uva a fine settembre o ai primi di ottobre. Dai tempi pagani la vendemmia era sempre stata la festa più importante dell’anno: una festività più sentita di altre nei calendari religiosi o nazionali, perché non celebrava un avvenimento lontano nel tempo, ma il frutto di un duro lavoro.
Le viti richiedono attenzione per la maggior parte dell’anno: in marzo o in aprile, dipende dall’arrivo della primavera, si deve zappare intorno ai filari. L’operazione successiva, la potatura, aveva luogo all’inizio di maggio, appena passato il pericolo di rigide gelate. Richiedeva abilità ed esperienza. Chi potava doveva conoscere quali getti lasciare, e quali tagliare, poi legava i rami a una canna o a un filo orizzontale che correva lungo l’estensione dei filari con delle corde di rafia o con rametti di salice. I rami scartati venivano raccolti dalle contadine che li facevano seccare e li conservavano per accendere il fuoco d’inverno.
Successivamente, alla fine di maggio, quando le foglie nuove erano spuntate, si irroravano le viti con solfato di rame. Gli uomini si spostavano avanti e indietro con pesanti taniche di ottone sulle spalle, legate con cinghie di cuoio; tenevano lo spruzzatore con una mano e con l’altra pompavano con una leva posta di fianco: il solfato ricopriva le foglie di una tinta grigio-blu – un colore che mi ricorda la Francia, più che l’Italia.
Quando il frutto cominciava a maturare, tutti discutevano del giusto equilibrio fra sole e pioggia, ed esaminavano da vicino la piccola muffa polverosa grigia che si posava sui grappoli di uva nera. Ma la grande paura – così grande che pochi osavano perfino citarla – era la grandine. Un’unica tempesta di notevole intensità poteva in meno di dieci minuti decimare il raccolto di un anno.
Il momento ideale per la raccolta avveniva durante un lungo periodo di sole dopo la pioggia: troppa pioggia avrebbe fatto marcire l’uva sui rami. I vecchi sostenevano che si doveva aspettare il periodo di luna calante. Man mano che si avvicinava il giorno della vendemmia, i preparativi si facevano più intensi. I colpi di martello indicavano che i barili venivano riparati – quelli da venticinque litri – e anche i grossi tini. La voce di una donna che cantava era probabilmente quella di una contadina, che con una scopa di saggina spazzava la tinaia dove erano conservati i tini.
Il giorno stabilito, alla mattina presto – la notte precedente spesso c’erano in giro voci di rinvio – ci radunavamo nella tinaia per prendere i contenitori e le cesoie. La forza lavoro era considerevole, perché tutti davano una mano: assieme a tutta la nostra famiglia e al personale di casa, erano venuti ad aiutare, alcuni anche da lontano, i fratelli, le sorelle, i cugini delle famiglie che vivevano nella proprietà. Ricevute le istruzioni, ci avviavamo al lavoro nei filari assegnatici chiacchierando in gruppo.
Era consigliabile indossare una qualunque protezione per il capo, non per il sole, perché i giorni di ottobre in genere avevano una temperatura ideale, ma per tener lontane le forfecchie dai capelli. Le contadine dalle braccia vigorose avevano sempre i loro grandi fazzoletti legati intorno al capo come infermiere, e io seguivo il loro saggio esempio; la tesa di un cappello era di impedimento, quando dovevi sempre infilare il viso tra le foglie alla ricerca del grappolo da tagliare.
Quando si era afferrato un grappolo di uva nera, apparentemente troppo matura, con la sua polverina grigia attaccata al picciolo, era bene scuoterlo un po’ per allontanare le vespe: le vespe erano la maledizione della vendemmia, ed era raro che la giornata terminasse senza essere punti. Gli unici altri inconvenienti erano il sudore che gocciolava sugli occhi, le mani così appiccicose che si era disposti anche a versarci sopra la propria razione di acqua da bere, e il peso del cesto sulle spalle quando lo si portava pieno – un percorso durante il quale altro succo appiccicoso colava giù per il collo e dentro la camicia.
Grida di evviva in lontananza annunciavano l’arrivo del pranzo: posavamo tutti le ceste e le cesoie e andavamo all’ombra di un olivo. Venivano fatti girare fiaschi di vino: dal momento che in genere non c’erano bicchieri sufficienti, chi beveva per primo lo vuotava fino in fondo con un scatto del polso e lo passava alla persona accanto. La maggior parte dei vendemmiatori aveva portato con sé una bottiglia di vino assieme a quella dell’acqua: era sorprendente quanto vino si riuscisse a bere durante il lavoro, senza subire gli effetti dell’alcol; sembrava evaporasse senza sforzo dal corpo insieme al sudore.
Un grande cesto rotondo conteneva tutto l’essenziale per un pranzo all’aria aperta: pane, pomodori, una bottiglia d’olio, un cartoccio di sale, un salame e anche una mortadella. Ma era da una pentola fumante che arrivava il piatto forte del pranzo: fagioli all’uccelletto con pinoli, una tradizione della vendemmia. Poi affondavamo i denti nei turgidi fichi maturi o nelle pere succose, e altro succo colava sui nostri menti: ma era uno di quei giorni in cui, per quanto imbrattati si fosse, non ci si sentiva mai sudici.
Con le chiacchiere e gli scherzi arrivavano anche storie dell’orrore su vini sofisticati e resoconti da far rizzare i capelli sulle varietà di additivi usati: spaziavano da tipi di alghe al sangue di bue, e io non potevo fare a meno di pensare che quelle storie offrivano un altro buon motivo per definire il vino «nero», come tendevano a chiamarlo i contadini, piuttosto che «rosso».
Lavoravamo fino a sera, riempiendo i cesti e poi vuotandoli nelle vasche di legno di castagno, chiamate bigonce, piazzate a intervalli regolari lungo i filari; a loro volta queste venivano caricate su un lungo carro di assi robuste.
Il carro era tirato da una coppia di imponenti buoi bianchi, il cui unico movimento brusco era quello delle orecchie per scacciare le mosche.
Caricate le bigonce, il conducente del carro incitava i mansueti animali, prima a resistere allo sforzo, poi a tirare su il carro fino alla tinaia. La stanza cavernosa era fresca e scura venendo dai campi soleggiati: l’illuminazione era fornita da un’unica lampadina appesa a un filo polveroso legato a una trave: l’ambiente odorava di muffa e di pietra umida.
Poi si appoggiava una scala a pioli contro uno dei grandi tini e i giovani contadini, agili come ballerini, salivano di corsa tenendo bigonce d’uva sulle spalle, con un sol movimento le versavano, poi si voltavano e scendevano di corsa, senza mai perdere l’equilibrio.
Quando un tino era quasi pieno, gli uomini si toglievano gli scarponi, arrotolavano i pantaloni e, lavati i piedi in un secchio d’acqua, si arrampicavano a pigiare il mosto che bolliva. Mentre pigiavano cantavano stornelli, e si davano la mano l’un l’altro per reggersi in questo scivoloso mar dei Sargassi, dal quale cominciavano a salire i fumi del vino: risate e grida si levavano quando uno di loro capitombolava. La statura certo giovava, perché, alla peggio, se si era alti, ci si aggrappava al bordo del tino per tirarsi su. Anche se i pericoli di intossicazione, e perfino di asfissia, da fumi erano sempre enfatizzati, la famiglie dei contadini consideravano l’inebriante profumo della fermentazione così benefico che portavano i figli malati nella vinaia, come per una specie di bagno sulfureo: se non altro, dopo avrebbero fatto una bella dormita!
Nulla andava sprecato: quando il vino veniva trasferito nel barile, la polpa residua di raspi, bucce e semi – la vinaccia – veniva fatta rifermentare con l’aggiunta di un po’ d’acqua per ottenere un vino leggero – il mezzo vino; oppure veniva distillata per fare la grappa. Questo compito era affidato a un distillatore ambulante, che portava il suo carretto con il serpente, un alambicco a forma di serpentina. (Si otteneva una grappa assai migliore, tuttavia, distillando un semplice barile di vino bianco.) Anche le foglie rimaste per terra e molte altre ancora sui rami erano raccolte dalle donne per usarle come foraggio per le bestie.
Nel contempo, altri grappoli d’uva, ancora attaccati ai rami, venivano sistemati nel portico del podere per essere appesi; quest’uva, nota col nome di pendice, una volta essiccata, veniva aggiunta al vino per aumentarne la gradazione, il profumo e il colore con una seconda fermentazione.
I migliori grappoli di uva bianca, la scelta, erano messi da parte a maturare bene: venivano stesi su stuoie di paglia fino a diventare simili a uva sultanina succulenta, e poi venivano aggiunti al vino per fare un vino speciale per festeggiare il Natale, che era saporito e corposo come un vino dolce di buona gradazione: era in genere servito come dessert con biscottini alle mandorle.
Altri grappoli erano scelti per essere affumicati; venivano appesi in alto sopra il fuoco di un camino: avvolti in pacchetti di foglie di vite, erano offerti come doni alla fine dell’anno. La vendemmia era generalmente un momento di generosità: nessun contadino o padrone si poteva rifiutare di offrire i prodotti del vino – dono della Provvidenza – ai bisognosi. Il vino, in genere il mezzo vino che non si conservava oltre la primavera successiva, veniva offerto ai poveri – i poveri del buon Dio – che portavano fiaschi vuoti da riempire. Ricevevano anche dell’uva, che avrebbero fatto fermentare a casa con l’aggiunta di acqua per farne un mezzo vino più leggero, chiamato acquarello.
La notte della vendemmia era riservata ai festeggiamenti. Nel cortile della fattoria di Adamo, all’ingresso meridionale, venivano sistemati lunghi tavoli coperti da lenzuola. Una cena di molte portate comprendeva minestre, ravioli con ripieno speciale, e molti tipi di torte: di funghi, di verdure, di spinaci, e anche di zucca; un’altra specialità della vendemmia erano i fagioli bianchi con le polpette – piccoli impasti di carne trita e riso. Ma l’elemento importante della festa era, naturalmente, il vino. I vini migliori – il vino vecchio di ciascun contadino – erano messi in tavola, assaggiati e decantati.
Alcuni dei presenti si contendevano amabilmente il compito di spiegarmi le regole del mescere e del bere. Il contadino evitava sempre di bere vino bianco e rosso nella stessa serata, ma tutti esprimevano il loro totale disprezzo per il vino «battezzato»: questo andava bene solo per le donne e i bambini; in una bottega di vinaio, nessuno avrebbe osato far passare dalle labbra una sola goccia d’acqua. Io imparai che le mescite dovevano girare intorno alla tavola in senso orario; e imparai anche alcuni dei molti proverbi che hanno a che fare col vino: il più noto e ripetuto era «Buon vino fa buon sangue» e, a giudicare dal consumo della maggior parte dei presenti che così sentenziavano, quelli stavano eseguendo una trasfusione completa – eppure mai passai serata più piacevole, né vidi danze più vivaci, quando più tardi cominciarono.