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Relais Villa Roncuzzi
UNA STORIA GIALLA

di Roberta Minghetti  

Mi presento

Tutti mi chiamavano GR, dicevano che assomigliavo a un tipo di grano che un tempo cresceva qui nelle campagne di Russi, il Gentil Rosso: più alto di tutti, generoso ma che “dava da fare” durante la mietitura. Da Gierre tempo qualche primavera e per comodità divenni Gir e poi Zìr che in dialetto romagnolo vuole dire giro e in effetti stare in giro era proprio la mia passione. Fin da piccolo il mio modo di assimilare il mondo era di sentirlo sotto il palmo delle mani quindi, quando non ero impegnato a giocare con i mei amici, giravo qua e là a immagazzinare dati tattili toccando tronchi, prati, rospi finché trovavo un rifugio e mi fermavo a leggere un libro iniziando a vagare con la fantasia, ogni racconto che leggevo si fissava nella mia mente con un colore.
Ogni storia aveva una sua sfumatura e se dovessi dare un colore a ciò che sto per raccontare direi che è una storia gialla.

L’ombra del drago

C’era una volta mia nonna: donna piccola, profumata e gran lavoratrice. Lei (e io dopo la scuola e nelle vacanze) abitava a San Pancrazio, un paesino nelle campagne di Russi vicino a Ravenna, la mia città. Appena il mattino si accendeva era già pronta a darsi un gran daffare: preparava la colazione, andava in cortile a prendersi cura degli animali, passava dalla bottega a fare la spesa e poi iniziava a filare accanto all’immagine penzolante di S. Antonio e, come una Dea armata di rocca e fuso, creava il filo dei nostri destini. Arrivata la sera, dopo aver sistemato la casa, friggeva qualche fetta di mela e chiamava:” Zììììr, Zììììr, è l’ora della favola, vieni!”. Era il mio momento preferito, lasciavo qualunque cosa stessi facendo e correvo a sedermi insieme agli zii e ai vicini di casa in un pezzo di cortile che avevamo in comune e lei, abbandonati ago, filo e arcolaio, iniziava a intrecciare parole di fiaba. Narrava di coraggiosi principi e dei loro fidi compagni di viaggio che con buone azioni e gesta eroiche riuscivano a sconfiggere mostri feroci, terribili sortilegi e prepotenti sovrani vivendo per sempre felici e contenti con le loro principesse. Mentre parlava io iniziavo a camminare sul filo del tempo in mezzo ad arcobaleni di colore. Era bello stare tutti insieme, ci sentivamo al caldo e al sicuro come dentro a una ninna-nanna come dentro al colore giallo; ho sempre pensato che il racconto fosse il modo che avevano gli anziani di tessere attorno a noi dei fili magici che ci avrebbero protetto, sostenuti e tenuti uniti negli anni a venire. Presto però questi fili si spezzarono e io mi ritrovai da solo. Accadde una notte, avevo quasi undici anni ed ero stato mandato in vacanza con la mia parrocchia a Premilcuore un piccolo borgo antico nel cuore dell’Appenino romagnolo, abbastanza vicino da essere raggiungibile con un’ora di macchina da Ravenna eppure così lontano da farmi perdere qualsiasi riferimento spazio temporale; la prima sera ci diedero una torcia e ci mandarono in esplorazione. Mi ritrovai inzuppato di buio come un biscotto caduto nel caffè. Non ero un temerario e soprattutto ero un bambino di mare abituato agli aghi di pino nelle scarpe, alla sabbia ovunque, alle dita sporche del nero dei pinoli schiacciati e soprattutto all’odore di salsedine e resina, lì in collina non riconoscevo nulla. Mentre gli altri si allontanavano correndo e saltando attorno ai dormitori io mi sedetti sotto un albero, la luna tonda rendeva superflua la mia torcia ma non la spensi, con le gambe strette tra le braccia pensavo ai miei amici che erano rimasti tranquilli in città dentro ai muri delle loro stanze, e a quelli che stavano ascoltando le favole immersi nell’odore dei campi e della mia nonna. Mi sentivo perso in mezzo al nulla, lontano dagli affetti, fu allora che arrivò per la prima volta: un’ombra quieta e sinuosa che avanzava lenta come un implacabile sicario. La sagoma non lasciava spazio all’immaginazione, era di certo l’ombra di un drago. Il cuore iniziò a battere forte come se volesse scappare via senza di me, il respiro si fece corto, guardai la luna in cerca di aiuto poi chiamai istintivamente il nome di mia nonna e d’improvviso le sue parole di fiaba iniziarono a dondolare ritmate nella mia mente: erano quelle che Liolinda ripeteva al principe Biancospino quando faceva il superbo:” una fetta di polenta, una scodella di latte e un paio di calzini di lana di pecora vale la tua vita!” per ricordargli di comportarsi bene perché avrebbe potuto barattare la sua vita con quelle poche cose in qualsiasi momento. Così presi tutto il fiato che avevo e dissi all’ombra del drago le stesse parole pronunciate dalla ragazza, piano piano il respiro si fece regolare, il cuore tornò nel mio petto e l’ombra sembrò dissolversi. Quella sera tenni la torcia accesa anche sotto alle coperte perché sapevo che in giro c’erano brutti sogni. Gli anni passavano e la nonna dopo qualche tempo trascorso in un mondo tutto suo ci lasciò e con lei le parole Casa e Insieme; la mia famiglia iniziò a spostarsi di città in città per seguire il lavoro di mio padre e io mi trasferì di scuola in scuola, di banco in banco, di amici in amici. Solo una cosa non smetteva mai di seguirmi: l’ombra del drago. Mi raggiungeva dentro ad ogni paura, perfino ora che ero ormai un zuvnōtt (dal dial. romagnolo: giovanotto), ogni volta che mi sentivo solo o qualcosa mi preoccupava arrivava fiutando la mia angoscia. Ripetere ad alta voce le favole della nonna mi rasserenava, allora l’ombra perdeva interesse e svaniva. Fino alla paura successiva. Da qualche anno avevo iniziato a disegnare, raccoglievo tutti i colori che avevo in testa e li trasferivo su carta o tela, disegnavo soprattutto visi, quelli delle persone che incontravo andando in giro. Ogni viso un colore. Ogni colore una storia da raccontare, ma più disegnavo e più mi accorgevo che mancava una tinta: quella del tempo lento, della curiosità, delle chiacchiere sui muretti di casa, di due ginocchia pronte a farmi sedere.
Mancava il giallo.
Di tanto in tanto mettevo uno schizzo in una busta e lo spedivo a Ravenna da Giuseppe, il mio più  caro amico d’infanzia e lui mi rispondeva raccontandomi un po’ dei vecchi amici e della città, mentre leggevo quelle sue brevi righe mi chiedevo dove finissero alla fine della giornata tutte le parole e i pensieri che le persone non avevano più la voglia e il tempo di scambiarsi e decisi che probabilmente, di notte, si sfilavano stanchi dalla testa come fili di seta per poi arrotolarsi su se stessi e finire sui muri e i pavimenti come polvere, a testimonianza del trascorrere di un tempo muto, senza intrecci. Iniziai a guardarmi attorno valutando l’ammontare di polvere/pensieri presenti nella mia camera, una sottile brezza faceva capolino dalla finestra socchiusa accompagnando la voce della mamma che mi chiamava dalla cucina. Il mio nome quel giorno profumava di buono, profumava di mare come la notizia che stavo per ricevere: si tornava a Ravenna per cercare un nuovo appartamento e partecipare ad un evento di cui non poteva dirmi altro perché doveva essere una sorpresa. E la sorpresa oggi è qui, a San Pancrazio dentro a Villa Roncuzzi, una splendida tenuta di inizio Novecento sapientemente ristrutturata e adibita a Relais di prestigio, che si posa sui prati del tempo elegante e fiera. In giardino c’erano tutti: gli amici della nonna, quelli di famiglia, Giuseppe con alcuni vecchi compagni di scuola e lei, Elena.
Elena era la mia vicina di casa quando ero piccolo e per me è sempre stata la bambina più colorata di tutte, negli anni ci siamo sentiti di tanto in tanto con un affetto che per me tendeva sempre di più al giallo.
Elena è davvero bella.
Ci salutiamo tutti con grandi sorrisi e abbracci trattenuti dagli anni di lontananza, mentre attraverso con una timida fretta il cortile e apro la porta a vetri per entrare, mi sento come quando correvo dentro casa tra le braccia della nonna. Nella sala di destra tutti i muri sono pieni dei testi delle sue favole e tra un racconto e l’altro sono stati appesi i disegni che avevo mandato a Giuseppe e altri che mia mamma deve aver sottratto di nascosto dal mio cassetto, dal pianoforte si alza la melodia del Notturno N.20 di Chopin. Sono immobile, immerso in un fulgido mosaico di emozioni quando vedo la proprietaria della Villa avvicinarsi a me: il suo abito è turchese e lei si muove elegante dentro piccoli gesti delicati come un orecchino di zaffiri appeso alle orecchie della storia; il suo volto si illumina orgoglioso attorno a un amabile sorriso e sottovoce inizia a parlarmi di questa terra e di come sia legata alle favole da generazioni : “Sai, si narra che i nostri favolari ne abbiano tramandate ben centotrentatré e questo ci rende il paese più piccolo e favoloso di tutta l’Europa e io oggi provo una gioia immensa nell’essere qui, dentro alla tua favola in questo tempo di legami ritrovati”; la sua voce raccoglie il filo che si era spezzato tanti anni prima e, come una carezza, si infila tra tutti noi, tra i disegni, i racconti, le note, tessendo parole e intrecciando ancora una volta i nostri destini. Dovrei essere agitato, travolto dalle passioni, ma il mio respiro è lento, regolare, provo a concentrarmi sui battiti del cuore per assicurarmi che nessuno manchi all’appello: ci sono tutti. Ho voglia di respirare l’aria che mi ha conosciuto quando ero bambino e dentro alla quale giocavo, esco dalla porta sul retro con una pizzetta in mano per sembrare naturale e mi avvicino a un pozzo, mi sono sempre piaciuti i pozzi nei cortili. Silenzio. Fuori il tempo è privo di rumori, fermo, come una pausa di respiro tra le note, sono esattamente dove vorrei essere, ho la sensazione di poter tenere tutto sotto controllo senza farmi più intrappolare dalla paura; sono ancora e assorto nei miei pensieri ad occhi chiusi, quando a un tratto sento la spalla di Elena appoggiarsi piano alla mia, il suo tocco mi riporta alla realtà con un balzo improvviso come se una goccia di cera bollente fosse caduta sulla mia pelle*: “Hey ciao, va tutto bene?” mi dice, o almeno così credo, perché in verità nelle mie orecchie arriva solo un ronzio, lo stomaco si appallottola tra le viscere e la gola mentre cerco un sorriso dentro ad una faccia che non sento quasi più, provo a rispondere: “bene, benissimo”. Stiamo fissando il vuoto con le mani che si sfiorano quando il mio sguardo viene attirato da una macchia scura che sbuca da dietro il pozzo. Mi sposto piano per non allontanarmi troppo da Elena e la vedo: sull’erba c’è l’ombra di una testa. È la testa del drago. Il suo corpo deve averla già preceduta nell’oblio; la mia mente corre veloce alla leggenda che soffia ancora tra questi campi, nacque nel 1600 quando l’impavido Ghilardo con un eroico stratagemma e un invincibile fendente  riuscì a tagliare la testa del drago che terrorizzava il paese; in ricordo di tali gesta si narra che tale testa sia ancora oggi inclusa nella palla di pietra infissa nella parete di Villa Roncuzzi, sopra agli inserti di mosaico che decorano il muro in pietra serena della facciata Nord.
Oggi, sul pavimento della storia e della mia terra, ho sconfitto il mio drago di paura e come un eroico principe aiutato dagli amici e da un po’ di magia proverò a conquistare la mia principessa; guardo Elena sapendo che sarebbe stato solo il primo di mille sguardi.
Stasera io e la mi famiglia ci fermiamo a dormire qui dove tutto è accogliente e familiare come una volta: in un attimo le scale sembrano quelle percorse mille volte e il letto è lì, nella mia camera, ad aspettarmi come sempre. Sono a casa. Le pareti ospitano favolose opere di artisti famosi ma nella mia mente c’è un solo colore. Giallo.




Nota al testo
*Riferimento alla cera bollente caduta dalla lucerna di Psiche (Amore e Psiche – Le Metamorfosi, Apuleio)

Bibliografia citata
Aa.Vv.
Tino Babini memoria storica di Russi – Panozzo Editore
BALDINI, E.-FOSCHI, A.
Fiabe di Romagna raccolte da Ermanno Silvestroni (Volume Terzo) – Longo Editore Ravenna
BALDINI, ERALDO
Alle radici del folklore romagnolo – Longo Editore Ravenna
Aa.Vv.
Il Romagnolo, mensile di storia e tradizione della provincia di Ravenna (N.25 ott. 2004) – Associazione Culturale Circolo del Merlo di Madonna dell’Albero