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Boutique Hotel Zenana
UN MONDO A PARTE

di Barbara Gramegna 

Dopo la rivoluzione del febbraio 1917, lo zar Nicola II venne arrestato e successivamente deportato a Tobolsk, una citta siberiana, e quindi a Ekaterinburg, negli Urali.
Nell’estate del 1918 la Russia si trovò in piena guerra civile.
L’esercito bianco, fedele allo zar, circondò Ekaterinburg e cercò di creare le condizioni per la liberazione di Nicola.
I bolscevichi decisero così di uccidere lo zar e tutta la sua famiglia nelle cantine della casa del mercante Ipatiev.
I corpi di Nicola II, della Zarina Alexandra Feodorovna e dei figli – Maria, Anastasia, Alexei, Olga e Tatiana – vennero portati nei boschi vicino alla città, ma la minaccia dell’esercito bianco costrinse i bolscevichi a fare le cose di fretta e a liberarsene non lontano dalla strada.
A causa del grande ritardo con cui si fece la scoperta, il mistero e l’idea che qualcuno di loro, fra cui Anastasia, potesse essere sopravvissuto, venne alimentato ad arte.
La sua storia dunque rimane ancora assai misteriosa.
Ne hanno fatto film, ne hanno scritto libri, ne continua a rivivere la memoria.
Strani presagi devono quindi avere avuto Nicola e Alexandra quando scelsero Anastasia come nome per la loro figlioletta più turbolenta e impertinente, secondo quanto si racconta.
Anastasia vuol dire infatti ‘resurrezione’.

Mi inquieta un attimo questo pensiero, considerato che la camera che mi ospita le è dedicata, così come del resto ognuna delle altre otto camere dell’Hotel Zenana porta un nome femminile: Zenobia, Lakshimi, Giselle, Audrey, Samblana, Elena,Coco, Modjadji.
Mi sdraio e cerco il riposo che non trovo mai.
In questo periodo vorrei sempre essere altrove, perché la vita di ognuno ormai lo fa desiderare; ma poi quando effettivamente sei altrove, ti manca la consuetudine, e perciò annaspo un po’ non avendo le solite cose da fare.
Lascio una finestrella aperta.
Una folata di vento mi fa tremare, ma poi ho la sensazione che qualcuno mi copra le spalle in maniera protettiva, come quando si è piccoli.
Quanto mi manca che qualcuno lo faccia.
Sono in un’ovatta: silenzio ma chiacchiericcio, caldo ma fresco.
Mi pare però di essere sveglia, sento anche la mia voce che dice:
– Cosa c’è?
Mi risponde un giovane in livrea con in mano qualcosa:
– Signora, guardi qui! – e appoggia sul letto dei fogli tenuti insieme da un’asticciola di legno, poi apre le tende per fare entrare la luce del tramonto che plana sulle cime ancora innevate.
Non amo particolarmente la montagna, e quando ci vengo è sempre per un motivo particolare.
Mi lascio cadere il piumino dalle spalle, che credevo qualcuno mi avesse appena coperto, e vedo questi fogli di un materiale trasparente, rosso, con una scritta in caratteri cirillici: ‘Швыбзик’.
Non si può dire che conosca il russo, ma lo riesco a leggere grazie a Anatoli.

Anatoli arrivò in Italia un bel po’ di tempo fa, affidato alla sorella di sua madre, era il primo bambino straniero della mia scuola.
Aveva carnagione chiarissima, quasi trasparente, occhi tristi e cangianti, capelli molto lisci e sottilissimi, qualche lentiggine vicino al naso.
Non diceva nulla, per mesi non parlò, tanto che credevamo fosse muto, scriveva però su dei bigliettini e la maestra, siccome mi sapeva curiosa, me lo mise vicino. Eravamo in quinta elementare.
Imparai il suo alfabeto; per me era come un gioco, come quegli alfabeti che da bambini si inventano per non farsi capire dai grandi o dagli altri compagni.
Nessuno capiva quello che scriveva, nemmeno io, ma portavo a casa ugualmente quei bigliettini e li conservavo in un piccolo bauletto del tipo di quelli in cui si vendevano le caramelle.
Fra questi bigliettini uno in particolare con un’unica parola: ‘Швыбзик’.

Sento le assi del pavimento scricchiolare, è quasi tutto di legno qui; di legno è il pavimento, di legno sono nicchie, piccole verande e vani che scopri man mano che ti addentri nel ventre di Zenana.
Zenana è casa, casa di donne, casa tua se lo vuoi. Continuo a sentire presenze.
In questo stato di torpore sono attraversata anche da un po’ di paura.
Scorro velocemente i fogli che mi sono stati lasciati sul letto, o almeno così mi pare, ne leggo ancora il nome di Anastasia.
Un brivido mi attraversa: avrei dovuto chiamarmi così anch’io, non fosse stato per le insistenze di una sorella di mia nonna, piuttosto ‘bolscevica’, che scoraggiò mia madre in questa scelta.
Ogni stanza qui ha una personalità, e certamente quella dove mi trovo io ne ha una molto forte.
Non credevo di essermi assopita, invece ho consegnato tutta la mia coscienza al sonno, per due ore e mezzo.
Ho trovato il riposo che durante la frenesìa della settimana nemmeno di notte mi alleggerisce.
Ma in stanza non c’è nessun ragazzo in livrea, né qualcosa sul letto, né nessuno nell’ingresso.
Mi convinco che sono proprio entrata in contatto con gli altri miei mondi, che questo mondo a parte mi ha schiuso.
Troppe coincidenze. Anastasia da bambina la chiamavano ‘Shvibzik’-‘Швыбзик’.
A Zenana sicuramente ci sono degli spiriti, quelli buoni, perché tutto è buono: il profumo in ogni stanza, la crema alla verbena che ti accarezza dopo la doccia, le fragranze che giungono dalla cucina.
A Zenana non si trova quello che si immagina che qui ci debba essere, ma si trova quello di cui non si sa di avere bisogno: appartenere al mondo.
Entrare nelle suites è un viaggio spazio-temporale, che attraverso colori, arredi e oggetti scelti con cura ti fornisce mille ‘incipit’ diversi per altrettante storie.
Nella mia suite ho trovato quello per la mia, o meglio quella di Anatoli.

Quando qualcuno soffre, andare a raccontare agli altri del perché della sua sofferenza è rendergli la pelle ancora più sottile, quindi mi ripromisi di non farlo.
Ma a Zenana le storie vanno raccontate.
Il padre di Anatoli era rinchiuso in un carcere a Novosibirsk, per omicidio colposo, prodotto di una delle tante notti di vodka. La madre, disperata e incapace di provvedere a lui, lo aveva consegnato alla sorella, che grazie a un bel catalogo di uomini in cerca di ‘seria amicizia scopo matrimonio’ riuscì a venire in Italia, portandosi appresso una figlia già dodicenne e il piccolo nipote appunto.
Questa chiacchiera era girata appena arrivò a scuola, ma poi si mescolò a tutte le alterazioni che solitamente subiscono i pettegolezzi, fino a perdersi un bel giorno in un rivolo di banalità relative all’essere l’unico bambino straniero e, già solo per questo, ‘sicuramente traumatizzato’.
Da lui non ci si aspettò quindi mai nulla di particolare e alla fine dell’anno lo si consegnò alla scuola successiva con qualche commento che non gli concedeva grandi chances di miglioramento, ma che teneva conto di tutte le difficoltà del caso.
Non ne seppi più nulla, fino a che un giorno, due anni fa, seduta al Caffè Demel di Vienna, un bigliettino sul vassoio del mio Wiener Melange, dove credevo di leggere il prezzo della consumazione, mi fece raggelare: ‘Hallo, Швыбзик!’
In affanno mi guardai in giro a cercare di recuperare nei diversi uomini ai tavoli della sala qualcosa del bambino di trent’anni prima, un uomo dalla pelle chiara e dai biondi capelli sottili, che aspettava solo che io alzassi lo sguardo. Ma nessuno lo ricordava, nemmeno lontanamente, nemmeno se gli avessi concesso una calvizie, dei baffi o qualche chilo in più.
Andai alla toilette, confidando di poterlo magari incrociare, senza esito.
In uno stato di notevole agitazione, come se fossi entrata in contatto con un fantasma e dopo avere cincischiato oltre un’ora, mi rassegnai ad uscire.
Le Kaffeehäuser viennesi sono luoghi dove quello che si vede è nulla rispetto a quello che nascondono: enormi laboratori di pasticceria, cucine, locali di disbrigo comunicanti spesso con altri locali che danno su un’altra via e, come accade nel film ‘Il terzo uomo’, ti potrebbe anche capitare di credere di avere visto qualcosa, ma niente e nessuno lo confermano.
Mi stavo quindi quasi convincendo di essermi sognata il bigliettino quando, da una porta di servizio, un uomo alto e muscoloso con gli zigomi molto pronunciati e una pelle diafana, ma ricoperta da una sottile e bionda barba di qualche giorno, mi venne incontro sorridendo e mi salutò in tedesco:
“Schön, dich wiederzusehen, liebe kleine Shvibzik”, bello rivederti, piccola cara Shvibzik.

Siamo nel cuore delle Dolomiti orientali, dove le montagne sono così vicine che riportano tutti a pensare necessariamente alla Madre Terra.
Dichiararle patrimonio dell’umanità ha significato metterle a disposizione di tutti e farci sentire parte della loro storia.
Qui una volta c’era il mare, chi lo direbbe.
Al mare sentiamo il fruscio delle onde e ci lasciamo cullare. Anche qui ci facciamo cullare.
Ci lasciamo andare dove ci sentiamo bene, e dove quello che ci circonda lo sentiamo nostro: e a Zenana è proprio così, un mondo a parte per fare parte del mondo e ora so perché mi sono fermata qui, prima di proseguire per Vienna.