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Mecenate Palace Hotel
LA PORTA ALCHEMICA

di Marco Proietti Mancini  

Quando apro gli occhi non riconosco il posto dove mi trovo.
Mi sento un po’ stordito, come se avessi dormito troppo. Anche gli occhi fanno fatica ad abituarsi alla luminosità che mi circonda, che mi avvolge, mi sento come se fossi immerso in un bagno di luce.
Eppure – nonostante questo – dentro mi sento tranquillo. Sereno. Non provo nessuna agitazione, nessuna preoccupazione.
Respiro lentamente, l’aria entra ed esce senza nessun affanno, senza fatica. A ogni minuto, a ogni respiro mi pare di sentirmi meglio, più sollevato. Anche questa luce che pareva accecante è come se stesse ritirandosi, la sensazione è quella di una marea che si ritrae, mentre l’onda lentamente arriva sempre meno avanti sulla linea del bagnasciuga.
Inizio a distinguere le cose intorno a me; sono in una stanza ampia, steso su un letto alto, molto comodo, sostenuto da un materasso che mi accoglie e insieme mi sostiene. Uno di quei letti che ti fa pensare che potresti rimanere addormentato per dieci notti e dieci giorni di seguito, per quanto ci stai bene dentro.
Sopra di me un soffitto decorato con stucchi e un grande lampadario a gocce. Le lampadine sono spente, c’è già tanta luce che arriva dalla grande finestra, ma il riflesso dei raggi del sole sul cristallo fa sembrare che il lampadario sia illuminato.
A mano a mano che gli occhi, come tutto il resto di me, si abituano a dove sono, riesco a cogliere sempre più particolari di tutto quello che mi circonda; i suoni iniziano a farsi vivi ed io li prendo e li metto insieme a quello che vedo. L’aria che mi entra dentro, aria che sembra perfetta per essere respirata, la temperatura, la consistenza – perché esiste un’aria leggera e quella pesante, quella che sembra non darti nulla, quella che fai fatica a far entrare – i colori tenui dei rivestimenti della stanza, delle tappezzerie, dei mobili che l’arredano; mobili antichi eppure lucidissimi, belli come quando un artigiano li ha realizzati, chissà se qualche secolo fa.
Fuori, oltre questa stanza che mi avvolge come un utero nel quale mi pare di essere protetto, sento rintoccare un suono di campane.
Mi alzo dal letto, sono completamente nudo. Mi avvolgo in un lenzuolo e mi avvicino alla finestra. A terra c’è una moquette soffice, sembra di camminare su un tappeto di terra ed erba morbide che accettano i miei passi e me li restituiscono, perché camminare non sia uno sforzo, una fatica, ma un piacere.
Guardo fuori, capisco da dove arriva tutta quella luce che si rovescia nella stanza. Sollevo gli occhi e vedo un cielo tanto azzurro da sembrare colorato con dei pastelli e poi protetto con una lastra di cristallo per farlo diventare lucido. Li abbasso e vedo un viale animato, persone che passeggiano, negozi dai quali entrano ed escono persone, mi pare di vedere solo volti sorridenti, solo persone felici.
Non riesco a capire dove mi trovo, quale sia la città, in quale nazione. Ci sono persone di tutti i tipi, occidentali, orientali dagli occhi a mandorla, arabi nei vestiti tradizionali, asiatici, indiani, donne avvolte in sari colorati, vedo uomini alti e biondissimi di origine nord europea. Anche i negozi e i ristoranti, ne vedo molti, sono con scritte di tutti i tipi e in tante lingue diverse, non ne riconosco nessuna.
Sembra che tutti vivano insieme, parlino tra loro, che tutto sia fuso, unito in un calderone unico nel quale non ci sia nessuna distinzione, nessuna diffidenza. Apro la finestra, mi sporgo un pochino fuori dal davanzale e noto, pochi metri più in là del palazzo dove mi trovo, una gelateria, una panchina davanti. C’è un gruppo di ragazzini che riproducono in piccola età quello che ho notato negli adulti, ma qui la mescolanza è ancora più evidente, ancora più gradevole da vedere. Bambini di ogni razza, con il loro gelato in mano, che chiacchierano, scherzano, si sorridono.
Mi rendo conto che la finestra mi schermava dai rumori della strada, che adesso sono entrati dentro. Richiudo i vetri e di nuovo c’è silenzio. Fino a quando non suonano di nuovo le campane che ho già sentito. Però con la finestra chiusa il loro è un suono leggero e gradevole, quasi una vibrazione profonda, che riempie senza disturbare.
Quando mi sono affacciato ho visto anche la chiesa da dove viene il suono delle campane. Si trova a sinistra, è una grande Basilica bianca e con un enorme loggiato decorato con un mosaico d’oro. Non so come si chiami, ma mi ha fatto capire in che città mi trovi. Chiese così meravigliose si trovano solo a Roma.
Quello che non riesco ancora a capire è perché io sia qui. Come ci sia arrivato. Da dove io venga. Veramente c’è un’altra domanda, ancora più importante e che viene prima di tutte queste. Io, chi sono?
Ma le domande non bastano, perché un dubbio, collegato a queste, dovrebbe essere presente. Nonostante io non sappia tutte queste cose, perché mi sento tanto bene e sono così sereno?
Su una poltroncina vedo poggiati degli abiti, su quella accanto ne vedo degli altri. I primi sono antichi, i tessuti un pochino logori, la foggia è disegnata su uno stile che non riesco a riconoscere. Gli altri sembrano nuovi, anzi, lo sono, perché la camicia è ancora avvolta nella pellicola trasparente, attaccate alle asole della giacca ci sono ancora delle etichette, scritte in una lingua che non riesco bene a decifrare.
Non capisco cosa voglia significare questa doppia esposizione, ma non ho nessun dubbio su quali abiti indossare. Passo in bagno. Mi lavo velocemente. Stacco le etichette, apro la confezione della camicia e indosso gli abiti nuovi, che mi stanno alla perfezione, come fossero stati confezionati su misura per me.
Calzo anche le scarpe che sono poggiate in terra vicino alla poltroncina, anche quelle mi stanno perfettamente. Mi guardo allo specchio, non mi riconosco, non so chi io sia ma l’immagine che vedo riflessa mi piace. Sono alto, ho una grande massa di capelli scuri e riccioluti che scende giù fino a metà della schiena, lineamenti regolari, un paio di baffi sottili che circondano le labbra e una mosca al centro del mento. Le guance lisce, senza neanche un accenno di barba.
Adesso, non so perché, ho una gran voglia di uscire da questa stanza. Mi avvicino alla porta, la apro e mi trovo in un lungo corridoio sul quale vedo tante porte come quella da cui sono appena uscito. Sul muro davanti a me vedo una targa di ottone con dipinta una freccia, c’è anche una scritta che non capisco, ma non mi importa. Seguo lo stesso la direzione indicata dalla freccia.
Alla fine del corridoio, un grande scalone in marmo, che scende e che sale. Non ho dubbi e inizio a scendere. Continuo a sentirmi bene, a mio agio. Anzi, continuo a sentirmi sempre meglio.
Quando sono arrivato in fondo, mi trovo in un immenso salone arredato con poltrone e divani, a terra il pavimento è in marmo decorato e multicolore, con intarsi di disegni geometrici, lampade di ottone lucente alle pareti, tappeti sparsi ovunque. Per un istante soffro di un leggero straniamento, ci sono tante persone che entrano ed escono da un portone in cristallo, altre sono in piedi dietro a un alto bancone di marmo e legno.
È una di queste persone, un signore distinto ed elegante, che indossa un’impeccabile uniforme scura con delle chiavette dorate ricamate sui baveri, che si accorge per primo di me. Mi sorride in maniera aperta, come se fosse felice di vedermi. Forse lo è veramente, anche se io non so, o forse non ricordo, chi sia. Gira intorno al bancone, mentre passa vicino alle altre persone le avvisa che sono arrivato e mi indica con il dito. Tutti allora mi guardano e mi sorridono. Viene verso di me, quando è vicino mi parla e io, anche questo per me è stupore, capisco cosa mi dice.
«Signor Marchese. Ben tornato, sono felice di rivederla».
Capisco le parole, ma non capisco cosa vogliano significare. Gli sorrido anche io, ma devo avere uno sguardo un po’ perso, perché lui continua subito.
«Prego, signor Marchese; mi segua, le spiego subito tutto e vedrà che andrà tutto bene».
Senza toccarmi, come se avesse paura, o forse rispetto, mi indica un salottino appartato e attende che io mi diriga per primo, poi mi segue tenendosi un passo indietro. Ci sediamo su due poltroncine vicine a un piccolo tavolino a tre gambe, intarsiato finemente. Intanto lui ha fatto un cenno veloce e pochi istanti dopo che siamo seduti, mentre non abbiamo ancora iniziato a parlare, una cameriera ci ha già portato un vassoio con due tazzine di caffè e dello zucchero.
L’uomo prende una zolletta con le pinzette e la lascia cadere nella tazzina più vicina a me, gira il cucchiaino, poi me la porge. Non posso fare altro che prenderla e portarla alle labbra. Appena il bordo si accosta, l’aroma del caffè inizia a risvegliarmi ricordi, al primo sorso è come se tutto tornasse, come se di colpo capissi ogni cosa. L’uomo mi osserva e sorride ancora, sorride sempre.
Come se sapesse quello che sta succedendo.
«Va meglio, signor Marchese? Adesso ricorda qualcosa, vero?»
«Sì. Adesso ricorda qualcosa. Lei, lei è… Mi aiuti, questo non lo ricordo. Lei si chiama…»
«Gualtiero, signor Marchese. Gualtiero. E con quest’anno sono quarant’anni esatti che io l’accolgo, ogni sedici luglio. Anzi, devo avvisarla che questo è l’ultimo anno che questo compito spetta a me. Dal prossimo anno sarà il mio sostituto a riceverla, ma non si preoccupi, come succede sempre quando ci diamo il cambio noi direttori, io per il primo anno sarò insieme al nuovo direttore».
«Sia buono, Gualtiero. Mi ricordi anche il mio nome».
«Ma certo, signor Marchese. Lei è il Marchese Massimiliano Savelli Palombara, di Pietraforte».
Di colpo ogni cosa si illumina, ma stavolta la luce è dentro di me. So chi sono, so perché sono qui. Gualtiero si accorge di questa mia rivelazione interiore e il suo sorriso cambia, diventa più rispettoso, anche se sempre franco e sincero.
«Gualtiero, certo! Che bello ritrovarla, cosa mi diceva? Che il prossimo anno non ci sarà?!»
«No signor Marchese, ci sarò, ma in borghese, solo per accompagnare il mio sostituto e fare in modo che la sua accoglienza sia sempre come lei merita. Dall’anno dopo, invece, troverà solo il nuovo direttore. Ma per lei, signor Marchese, non cambierà nulla».
Adesso mi è tutto chiaro. Io sono il Marchese Massimiliano Savelli Palombara, vissuto a Roma dal 1614 al 16 luglio del 1685, marito di due nobildonne e padre di tanti figli che non bastano le dita di entrambe le mani a contarli. Se poi ci mettiamo anche i figli avuti dalle altre donne, le amanti, le concubine, le servette e le nobildonne, allora forse di mani non ne basterebbero quattro.
Sono stato soldato, prigioniero ed evaso, consigliere della municipalità di Roma, sono stato poeta, ribelle e scienziato. Sono stato alchimista. Sono stato massone.
Ma più di qualsiasi altra cosa io sia stato, conta quel che io ho fatto. Io Massimiliano Savelli Palombara, Marchese di Pietraforte, sono stato il costruttore della “porta alchemica”. Il passaggio tra i mondi, l’uscio di pietra le cui iscrizioni, se lette come si sa, come si deve e come io solo sono capace, porta avanti e indietro dal mondo dei morti al mondo dei vivi. Ed è questa porta, che ancora esiste e sempre esisterà, che mi permette ogni anno, nel giorno della mia morte – il sedici luglio – di tornare per un giorno e uno solo, a vivere dove era la mia casa, dove era la mia vita.
«Gualtiero, la porta è ancora lì, questo è evidente. Ma cosa mi dice? È cambiato qualcosa?»
«Nulla, signor Marchese. Intorno sì, sono cambiate molte cose. Ma qui, per merito suo, nulla è cambiato. Grazie a lei, alle sue creazioni e alle sue scoperte, all’influenza benefica della sua porta, qui in questo quartiere tutto è bellezza e non esistono le differenze, non esistono le brutture che si vivono altrove. Grazie a lei qui non conta nulla il colore della pelle, la lingua che si parla o il Dio che si prega».
È vero, ricordo. Mentre i miei colleghi alchimisti si sforzavano di scoprire il segreto della trasformazione del metallo in oro, io ero riuscito a compiere la vera trasformazione. A capire che l’oro di cui parlavano gli antichi saggi non era quella sostanza preziosa gialla e lucente a cui gli uomini davano tanta importanza, ma era la pace, la tolleranza, l’accettazione, l’amicizia tra gli uomini. Avevo capito che per riuscirci non serviva la chimica, la scienza, era necessaria la magia.
Avevo trovato la formula e l’avevo incisa nel marmo, lasciandola sull’architrave e sugli stipiti della mia porta, insieme ai simboli necessari per attivarla. Era stato allora che tutti gli Dei del mondo si erano uniti insieme per concedere a me, uomo, il beneficio e il potere di rinnovare questa magia. Dandomi la possibilità di tornare ogni anno, per poterla ripetere, tornando tra i vivi.
«Gualtiero».
«Mi dica signor Marchese».
«Prima che io esca e vada alla porta a ripetere la formula, per rinnovare la magia di questo quartiere, due cose».
«Sono qui, me le chieda, signor Marchese».
«La piazza ha cambiato nome?»
«No, signor Marchese. Si chiama sempre Piazza Vittorio Emanuele. La porta è sempre lì».
«Bene. Almeno non mi perderò. E questo albergo, Gualtiero, è cambiato?»
Gualtiero sorride.
«No, anche l’albergo è sempre lo stesso. Lei torna sempre qui, da noi, al Mecenate Palace Hotel. E noi le lasceremo sempre la stessa stanza, ogni 16 luglio, di ogni anno. Per sempre».
Non devo sapere altro, adesso devo andare a compiere il mio dovere, quello per cui Dio, Allah, Buddha e tutti gli altri Dei mi hanno concesso il potere e di tornare. Poi passerò la giornata a vagare nel mio quartiere e a godere la bellezza di questa meravigliosa isola di integrazione. Stasera tornerò all’Hotel, e dopo aver mangiato qualcosa, rientrerò nella stanza che ogni anno mi aspetta. Fino al prossimo anno. Quando tornerò ancora. Perché io, Massimiliano Savelli Palombara, Marchese di Pietraforte, tornerò sempre.