Close

Palazzo Vitturi
IL VIAGGIATORE

di Michele Costantini 

Il colombo dimenava le ali, assieme a tutto il resto del corpo, goffo ed ansimante, appesantito dalla fatica. Sentiva ogni fibra del suo corpo allungarsi e contorcersi nel disperato tentativo di sfuggire al nemico.
I due gabbiani lo stavano inseguendo appaiati, dispiegando le loro grandi ali bianche con più eleganti gesti, emettendo di tanto in tanto suoni aspri e aciduli lungo traiettorie più ampie ma altrettanto efficaci: i loro occhi luccicavano di soddisfazione ed infatti il colombo era lì ormai, a pochi centimetri dal loro giallo becco ricurvo.
I rapidi cambi di direzione del volatile in fuga, il suo piroettare attraverso sottoportici e calli sempre più strette era ormai vano.
Infatti. Dopo essersi infilato in quella buia e lunga calle dal nome così descrittivo, come d’uso a Venezia, di ‘Calle Lunga Santa Maria Formosa’, ecco che suo malgrado il campo di caccia si riapriva: il cielo, improvvisamente, esplodeva di nuovo davanti ai suoi occhi, con tutto quell’azzurro del mezzogiorno. La luce intensa e piena lo abbagliava.
Dopo un’ulteriore funambolica virata ed una difficoltosa orbita sul cono di marmorea panna montata del campanile, ecco che la via di fuga gli si parava innanzi. Un possibile modo – forse l’unico – per fuggire alla famelica smania dei gabbiani che gli toglievano l’aria da sotto le ali era certamente quello di infilarsi a tutta velocità nell’entrata del Palazzo rosso mattone che aveva visto mille e mille volte duranti i voli mattutini dei tempi felici.
Ora però la velocità ed il bagno di luce glielo facevano appena intravvedere. Sembrava quasi impossibile infilarsi in quell’antro di marmo bianco, incastonato come una gemma nel rosso del muro trecentesco. Il passaggio portava verso la probabile salvezza, verso l’interno una volta servito da ​bottega nell’uso abituale dei palazzi nobili veneziani.
Il colombo, con grandissimo sforzo e dolore, abbozzò strenuamente ancora qualche colpo d’ala, dirigendosi quasi ad occhi chiusi, dritto verso il Palazzo.
Bam!
Il suo becco aquilino e tutto il resto del corpo ed i due gabbiani che poco prima erano dietro di lui avevano arrestato quasi all’unisono il loro folle volo con un tonfo fragorosissimo e scomposto, sbattendo contro la barriera invisibile della porta di vetro.
“Benvenuti a Palazzo Vitturi!”, sussurrò dalla reception con un ghigno il buffo Direttore.
I due gabbiani erano già rinvenuti ed avevano cominciato la loro opera di recupero dell’ordine naturale delle cose: con il becco laceravano le carni molli del fragile corpo del colombo semi paralizzato.
Il Direttore, che aveva assistito a tutta la scena seduto dietro al banco reception, con un gesto richiamò l’attenzione di Florencio.
Si parlavano spesso a gesti, visto che quest’ultimo parlava poco d’italiano, nonostante avesse trascorso gran parte della sua vita a Venezia, emigrato dalle Filippine ancora giovane.
La sua ostinazione a mantenere una certa ’distanza linguistica’ era dettata da un malcelato amore, nostalgia della sua terra. Parlava spesso della sua città natale e di quanto presto ve ne avrebbe fatto ritorno, prima che i genitori fossero stati troppo vecchi da non godersi finalmente l’amato figliolo.
Con la piccola fortuna accumulata in Italia avrebbe sicuramente vissuto di rendita, grazie alle due piantagioni di riso che era riuscito ad acquistare anni addietro. Era stato il gentile aiuto economico dei proprietari del Palazzo a consentirgliene l’acquisto ed era questo il motivo per cui da quel momento era rimasto loro così fedele.
Dello staff dell’hotel, Florencio era il decano. Il primo assunto. Aveva avuto accesso all’edificio come inserviente addetto alla pulizie ben prima di qualsiasi altro.
Da quando il precedente Direttore si era trasferito in America, era lui il custode della storia recente dell’hotel, l’anello di congiunzione tra la proprietà ed il personale.
Negli anni, la sua figura aveva assunto quasi un’accezione metafisica: veniva chiamato – anche quando non c’era! – quando si trattava di risolvere qualsiasi tipo di problema, soprattutto se questo implicava il seppur minimo sforzo fisico.

Ancor prima che il Direttore facesse quel cenno di richiamo per invitarlo a ’risolvere il problema’, Florencio era già in azione.
Come gli aveva insegnato un vecchio venditore di granaglie di Piazza San Marco (mestiere ormai estinto dopo il divieto alla vendita di grano ai colombi dell’area marciana voluto dal sindaco qualche anno addietro) il miglior modo per scacciare l’audace gabbiano, sempre meno impaurito dagli esseri umani, è quello di mimare la sua apertura alare fingendosi volatile più grosso.
Infatti, non appena la corsa a braccia aperte di Florencio verso la porta di vetro fu notata dai due gabbiani, questi ultimi fecero un balzo all’indietro e sparirono in pochi istanti.
Il sorriso per la scena buffa era già sparito dalle sue labbra. Prese con le due mani il colombo che nel frattempo era riuscito a trascinarsi all’interno dell’hotel nel disperato tentativo di sottrarsi al barbaro banchetto dei gabbiani. Con grazia e decisione ricollocò l’animale sull’uscio, nella parte esterna della porta.
Gli sembrava di interpretare la volontà del Direttore, che certamente stava pensando che la vista del volatile morente all’interno dell’hotel avrebbe in qualche modo disturbato gli ospiti, ma in cuor suo avrebbe fatto di più per lo sfortunato uccello.
Passò poco tempo prima che il suo sguardo si incrociasse di nuovo con quello del Direttore. Un’occhiata di quest’ultimo ed il riflesso dei suoi occhiali argentei all’annuire della testa gli avevano fatto capire che avrebbe potuto sistemare meglio questa faccenda e finalmente a modo suo.
Il Direttore, lievemente ipocondriaco, in realtà era focalizzato su altro. Stranito dal fatto che dopo aver toccato il colombo l’inserviente non si fosse immediatamente lavato le mani. Certo, l’ordine di utilizzo del gel-mani disinfettante che aveva rivolto molte volte al personale per proteggersi dopo ogni ’contatto’ aveva avuto scarso seguito. Ma almeno un’insaponata alle mani, pensava, sarebbe stata opportuna!
Florencio recuperò un cartone dal locale destinato al deposito immondizie e costruì un piccolo rifugio per il malato.
All’interno di quello scatolotto, avvolto in un panno morbido al riparo da intemperie e famelici gabbiani, il colombo avrebbe certamente recuperato le forze. Infatti gli bastarono pochi giorni di convalescenza per riprendersi.
In quei giorni Florencio avea continuato ininterrottamente a lucidare tutte le coppette del lampadario di Murano del salone al secondo piano, da lì poteva osservare i movimenti sempre meno incerti del suo piccolo amico, finché un giorno si vide costretto a lasciarlo uscire di nuovo.
Pochi passi incerti ed il colombo era già in volo.
Con un sorriso lui lo vide sparire sopra la sua testa.

Passarono solo poche settimane ed il volatile era in forma smagliante. Si era specializzato nei voli radenti, a pelo d’acqua, per i canali di Venezia. Sembrava che quella fosse l’angolazione migliore per cogliere i riflessi: gli piaceva farsi sorprendere dalla prospettiva distorta che genera l’acqua col suo molle, perenne movimento.
A volte, si lanciava in prodigiose picchiate da uno dei numerosi campanili della zona di Castello. In particolare gli piaceva, al limitare dell’Arsenale, quello un po’ tozzo sovrastante la Chiesa di San Martino, anch’esso di fitti mattoni rossi. Una costruzione non opulenta, non certo ai livelli dei più blasonati pennacchi di altre contrade. Gli piaceva cogliere le espressioni divertite delle anziane signore di quella parrocchia, più intente a chiacchierare che a gestire il loro mercatino delle cose vecchie. Si lanciava in incredibili zig-zag tra gli orli lavorati delle mura dell’Arsenale, che da San Martino corrono lunghe fino alla Laguna nord.
Nel volo, appariva molto più agile di una volta. Forse era il frutto dell’esperienza accumulata, oppure quella brutta botta contro la porta di cristallo.
Era la sua percezione in realtà ad essere mutata: gli occhi, abituati per nascita a fargli scindere tutto a metà, quegli occhi che fino allora lo avevano obbligato a voltare la guancia verso la direzione cui volgeva il suo interesse, avevano finito per assumere una nuova funzione, facendogli vivere una dimensione alla quale non era abituato.
Sembrava che ora riuscisse a dominare l’intero orizzonte, non la sua metà.
Si era buttato inconsapevolmente alle spalle quell’abitudine un po’ manichea di vedere tutto al di qua, oppure al di là.
Davanti a lui ora Venezia doveva apparire ’tutta’ ed il suo era probabilmente lo stesso volo d’uccello immaginato secoli prima dal De Barbari.
Era stata la natura a dargli quel dono? Appunto l’esperienza? Oppure ci riusciva grazie a qualche artifizio, qualche ricostruzione a posteriori, come se disponesse di una ​camera oscura, dove “sviluppare” l’idea ricomponendo i vari sondaggi fatti nel reale, a volte ripetuti, altre solo immaginati?
In ogni caso, aveva imparato a costruire la ‘sua’ Venezia, unica, irreale ed allo stesso tempo ‘vera’, essenziale. Gli elementi che vi aggiungeva, i ​capricci, contribuivano a rendere ancora più ricca la bellezza che vedeva.
Fu allora che capì che ne voleva ancora ed ancora: il campo, la città stessa di Venezia iniziavano a stargli stretti.
Nelle giornate terse, durante i lunghi voli, aveva notato dietro l’orizzonte montagne ed alcune chiazze d’acqua sparse tra le verdi campagne e colline al di là della Laguna.
A volte queste visioni gli apparivano addirittura in sogno.
Cominciava sempre più di frequente ad ​immaginare. Non c’era mai riuscito prima d’allora.
La sua immaginazione divenne così fervida da figurarsi in viaggio verso destinazioni sempre più lontane.
Più ci pensava, più la voglia di ​viaggio si insinuava fin nel profondo della sua anima. Il viaggiatore era nato ed era cresciuto in lui fino a pervadere completamente le sue membra.
L’evoluzione era compiuta.

Florencio lo attendeva sull’uscio e lo accarezzava con lo sguardo ogni mattina, sette giorni su sette, ma era chiaro che quella sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti.
Con il becco, il colombo stava spostando verso di lui una chiave che faticosamente ed indisturbato aveva sospinto lungo la calle adiacente il Palazzo durante la notte.
Per tutta quella lunga notte, lo scintillio della chiave dorata ed il suo tintinnio gli avevano tenuto compagnia, cullando il suo pensiero gentile. Sicuramente immaginava il largo sorriso del suo amico uomo non appena egli avrebbe inteso che con quel dono voleva dirgli “Grazie per avermi salvato la vita!”
Con un gesto pomposo ed un’espressione colma di riconoscenza, Florencio infilò la chiave nel taschino e si allontanò, senza voltarsi.
Il colombo era ora pronto a seguire il suo destino, alla scoperta del mondo oltre la Laguna.
“Grazie per il suo soggiorno e Buon Viaggio!” – esclamò a gran voce il Direttore buffo, in un ghigno molto più affettuoso, quasi a volersi far sentire dal colombo viaggiatore che ormai aveva spiccato il volo.