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Relais Villa Roncuzzi
ANGELICA E IL DRAGO

di Ornella Fiorentini 

1) IL DRAGO.
La dottoressa Angelica Flor richiuse la porta dietro di sé. Lasciò cadere sul tappeto rosso la pesante borsa di cuoio. Scaraventò il giubbotto di pelle nera sul divano. Raccolse i lunghi capelli color miele in uno chignon disordinato che metteva in risalto la nuca graziosa, i lineamenti regolari, le labbra piene e i luminosi occhi azzurri, vanto di Augusta, sua madre. Dalla figura slanciata e sinuosa, acquisita in tanti anni di faticosi esercizi alla sbarra, dimostrava meno della sua età. Dal freezer tolse una confezione di involtini primavera, che mise a scongelare nel forno a microonde. Non aveva avuto il tempo di pranzare e, alle nove di sera, aveva davvero bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. Speranzosa, aprì il frigorifero: desolatamente vuoto se non fosse stato per un ciuffo di sedano e un unico uovo rimasto, che mise a bollire. Accese la radio. La spense dopo aver ascoltato un minuto di pubblicità progresso a favore della sicurezza negli ambienti di lavoro. Sussultò al pensiero di quell’aggressivo pastore tedesco, scappato dalla gabbia per degenza della clinica veterinaria dove prestava servizio, che avrebbe dovuto vaccinare con una iniezione sottocutanea il giorno prima. Stava per avventarsi contro di lei come una furia. Forse perché era a digiuno o perché si sentiva abbandonato dal padrone? Angelica era stata fortunata ad aver avuto appena il tempo di scaraventare una sedia in aria per distrarlo e a mettersi in salvo oltre l’inferriata di sicurezza del corridoio. Ascoltare “Per Elisa” e poi “La sonata al chiaro di luna” di Beethoven sarebbe stato un balsamo per l’anima, un rimedio antistress. Si augurò che la musica classica potesse ancora una volta riconciliarla con il resto del mondo nella fredda sera nebbiosa di fine novembre che, a San Pancrazio, sapeva di zolle smosse e di cenere nel camino. La luna piena, che tanto le piaceva contemplare dalla finestra, era velata. Le stelle, assenti. Si sentì inquieta. Provò un senso di solitudine e abbandono. Di certo Beethoven l’avrebbe aiutata a liberarsi dal risentimento che nutriva nei confronti dell’azzimato e piacente Emanuele, funzionario di banca. L’aveva lasciata senza una vera spiegazione dopo un fidanzamento durato tre anni.
“Mi dispiace, Angelica… Ho cambiato idea. Non posso… Non voglio più sposarti” erano state le sole parole pronunciate alla fine di una inaspettata telefonata nel cuore della notte. Aveva preso tempo, balbettato qualche spiritosaggine sul suo essere poco femminile a causa della professione scelta e non troppo disponibile per i lunghi turni in clinica. Poi, più nulla; da settimane ormai, sebbene lo avesse richiamato il mattino seguente per chiedere il motivo della fine di un legame che pareva consolidato, anche se non del tutto gratificante, dati i pochi interessi in comune. Emanuele aveva lasciato squillare il cellulare senza rispondere. Dopo una settimana la postina le aveva recapitato un pacco contenente alcuni libri ed indumenti, che aveva dimenticato nel suo lussuoso attico.
“Rottamata… sono stata rottamata e forse già sostituita da una ragazza più giovane e sexy: tacco dodici, sorriso di plastica e trucco sempre perfetto. È colpevole e vile il silenzio di Emanuele” aveva concluso tristemente Angelica.
Si sentì pervasa da un languore inconsueto, preludio, ne era consapevole, all’insonnia che tentava di contrastare con la doppia tisana di biancospino e melissa. Il giorno dopo, venerdì, sarebbe stato il suo trentesimo compleanno e, inevitabilmente, avrebbe fatto un bilancio della sua vita che, invece, avrebbe voluto rimandare sine die. Spinse il tasto del lettore cd. Le note romantiche dei due brani di Beethoven in sequenza vibrarono nell’aria. Si sentì struggere. La musica classica le aveva sempre infuso un armonico senso di appartenenza all’universo fin da bambina, sebbene avesse detestato passare il pomeriggio a suonare il pianoforte sotto il vigile sguardo di Augusta, invece di andare a caccia del drago in giardino. Pensava infatti che fosse nascosto dietro la siepe o il pitosforo. L’avrebbe affrontato senza paura. C’era una immagine votiva di San Giorgio, immortalato nell’atto di colpire il drago con la lancia per liberare l’indifesa principessa, nel lungo corridoio di casa. Piaceva alla piccola Angelica, che fantasticava ad occhi aperti. Leggeva fiabe e fiabe di cui il fantomatico animale era l’incontrastato e malvagio protagonista. Il gioco della caccia al drago, la costante richiesta di passeggiare nei viottoli dell’ubertosa campagna romagnola per osservare l’alacre lavoro dei contadini e di vestirsi in maniera sportiva avevano davvero infastidito l’elegante Augusta, che aveva sempre tentato di smorzare l’entusiasmo e la curiosità della figlia nei confronti della vita agreste e del dialetto.

2) LA FIABA.
Angelica prese gli involtini primavera dal microonde. Rovesciò il contenuto della vaschetta nel piatto. Tolse il guscio all’uovo sodo che tagliò in due parti e si sedette a tavola. Si versò un bicchiere di buon sangiovese. Nel rosso rubino, nel riflesso del vetro, rivide le fini mani di sua madre Augusta che sistemavano le rose bianche nel vaso di cristallo. Risuonò in lei la voce bassa e misurata che indirettamente le attribuiva la responsabilità di quello che riteneva fosse un fallimento personale, considerata la situazione economica invidiabile di Emanuele.
“Avevo già incominciato a organizzare il tuo matrimonio… E l’anello d’oro con il solitario? Gliel’hai dovuto restituire? Forse non gradiva che tu fossi andata a fare la veterinaria in campagna… Tuo padre è molto contrariato; sarebbe stato felice di condurti all’altare sulle note armoniose del Canone in Re Maggiore di Pachelbel” era stato il velenoso, laconico commento di Augusta alla ferale notizia della ‘dipartita’ di Emanuele.
La grande sala da pranzo della casa ravennate dei genitori, entrambi antiquari, era inondata dalla luce fredda che proveniva dal lampadario a gocce di Murano. Augusta aveva lanciato uno sguardo nostalgico al pianoforte a coda su cui la figlia si era esercitata da bambina. Veterinaria? Che errore madornale! In cuor suo aveva coltivato il sogno che diventasse, se non antiquaria anche lei, perlomeno concertista.
“Ammirevole è il distacco con cui riesce a prendere la vita mia madre… Sempre ben pettinata con l’immancabile filo di perle al collo. Perché non ho ereditato il suo innato ‘savoir faire’? Ha fatto di tutto perché assomigliassi a lei: lezioni di danza, di pianoforte e di francese senza apprezzabili risultati da parte mia, poiché sono dotata di una natura rustica, da maschiaccio, come dice papà. Forse avrebbero preferito un’altra figlia” pensò ancora più tristemente Angelica.
Addentò un involtino primavera, bevve un sorso di vino rosso con le lacrime agli occhi. Ricordò di essere reperibile fino alle otto del giorno del suo compleanno. Sperò che nessun allevatore o proprietario l’avrebbe chiamata perché mancava un cavallo nella stalla o perché un cane di grossa taglia si era perso nei campi. Non era mai facile avere a che fare al buio con un animale irrequieto, spaventato, che non si sarebbe mai lasciato prendere con le buone. Angelica avrebbe dovuto anestetizzarlo da lontano con un dardo sparato dal fucile ad aria compressa della clinica. Da poco aveva preso il porto d’armi suscitando la disapprovazione di Augusta ancora una volta; alla vista poi del tatuaggio del piccolo drago sul polso sinistro, lei aveva sibilato tra i denti: “Quando ti deciderai a crescere?”
Angelica si augurò che nessun puledro, o vitello avesse intenzione di nascere con la complicità della luna piena. Notò che il soggiorno e l’angolo cottura erano in disordine. Aveva preso in affitto il piccolo appartamento a San Pancrazio poco lontano da Villa Roncuzzi, un’antica dimora dei primi del Novecento. Ristrutturata da Donna Patrizia con particolare attenzione all’arredamento, agli inserti di mosaico nella pietra serena e alle opere d’arte di Dario Fo, Moreni, Cucchiaro, Battistini che l’abbellivano, era stata adibita a relais di pregio. Attirava parecchi ospiti inglesi, francesi e scandinavi. Amanti della tranquillità, della natura circostante e della bellezza dei preziosi mosaici ravennati, giungevano a San Pancrazio, detto il Paese delle Fiabe – gli abitanti ne raccontavano fino a centotrentatré – per rigenerare lo spirito e gustare le prelibatezze culinarie dell’entroterra romagnolo, un’affascinante parte d’Italia ancora da scoprire.
Angelica era rimasta incantata dalla fiaba del drago, che aveva sentito leggere durante la visita al Museo della Civiltà Contadina. Nel 1600, aveva seminato terrore e morte tra i pacifici abitanti di San Pancrazio dediti alla lavorazione della canapa e alla coltura del baco da seta. Il coraggioso Ghilardo l’aveva stanato con lo stratagemma di una enorme tinozza piena di latte appena munto. Vorace, il biscione della Torre, come veniva chiamato, era sgusciato fuori dall’attigua palude per sfamarsi. Sopraggiunto al galoppo, in sella a un focoso destriero, Ghilardo lo aveva decapitato con un solo fendente. Si dice che la sua testa fosse inclusa nella palla di pietra infissa nella parete nord di Villa Roncuzzi. Anche Donna Patrizia era rimasta incantata dalla fiaba del drago. Aveva voluto rendere omaggio all’eroe di San Pancrazio commissionando a uno dei tanti artisti, di casa a Villa Roncuzzi, un grande affresco con la scena della sua uccisione. Angelica sospirò. In fondo era fortunata a vivere tra favolari saggi. Onoravano il potere creativo dell’immaginazione con l’affabulazione: storie e storie narrate nei trebbi per trascorrere in compagnia le notti d’inverno.
“Non è forse ogni fiaba il sogno di una vita migliore? Ghilardo non era certo uno stinco di santo. Era un brigante che, macchiatosi di alcuni delitti, sarebbe stato impiccato se non avesse accettato di uccidere il drago in cambio della libertà… Anch’io non ho nulla da perdere. Devo ricominciare da capo e tornare a sorridere come desidera Fabio” disse tra sé Angelica.

3) VITA A SAN PANCRAZIO.
Con gratitudine pensò all’empatico collega con cui aveva condiviso l’avventura di fine estate, in realtà un ‘servizio di pubblica utilità’. Dopo un appostamento nel cuore della notte, in un boschetto avevano ritrovato la vacca della fiera razza de lidia, la stessa dei tori da arena, che era fuggita dalla fattoria. Fabio l’aveva anestetizzata con la siringa contenuta nel dardo. Aiutato dal proprietario e da altri uomini, l’aveva incaprettata e caricata sul camion diretto alla fattoria. Atletico e sicuro di sé, parlava in un dialetto stretto, quasi incomprensibile per Angelica che non spiccicava neppure una parola. Lo guardava muoversi disinvolto tra quegli uomini rudi, temprati dalla vita nei campi, con profonda ammirazione e un po’ d’invidia. A dire la verità, una buona conoscenza del romagnolo le avrebbe senza dubbio facilitato la vita a San Pancrazio.
“Il dialetto è la mia prima lingua. Me l’ha insegnato la nonna. Vorrei però potermi anche esprimere in un perfetto inglese di Cambridge come fai tu” si era schermito Fabio, che aveva trascorso l’infanzia nella grande casa colonica di famiglia.
Il suo modo di fare schietto e l’espressione gentile avevano, a poco a poco, conquistato la fiducia di Angelica, schiva di natura. Al contrario di Emanuele, Fabio non era mai imbronciato perché ben disposto verso il prossimo. Angelica sospirò. Sparecchiò la tavola. Andò in camera da letto, si spogliò e si ficcò sotto la doccia calda. Lasciò che l’acqua le scivolasse sul collo e sulla schiena. Il cellulare squillò. Angelica sporse una mano fuori dal box per afferrarlo.
“Dottoressa Flor” rispose in tono secco, dato che sul display era apparso il numero di telefono della clinica.
Gocciolante, alla bell’è meglio indossò l’accappatoio a righe.
“Angelica… Fabio. C’è una richiesta di visita urgente a Villa Roncuzzi. Si tratta del beagle di una turista danese. Donna Patrizia ha detto che respira a fatica. Vuoi che vada io? Sono ancora qui, trattenuto oltre l’orario di lavoro da una volpe”.
“Una volpe?”
“Già, un esemplare di femmina, investita da un’auto vicino all’argine del Montone. Il conducente, che l’ha portata in clinica ancora viva, non ha potuto scansarla. Sembra che avesse perso l’orientamento. Camminava a zig zag. Si è fatta quasi investire”.
“Morta?”
“Sì, ma non per l’urto con il parafango. Temo che ci sia un’altra causa”.
“Rabbia?”
“Probabile. Quel virus non perdona e si trasmette anche all’uomo. È buona prassi accertarsi che la volpe non ne fosse infetta. Non escludo il ricorso all’autopsia presso l’ente preposto. Do un’ultima occhiata alla carcassa prima di sistemarla nel congelatore in attesa degli accertamenti necessari”.
“Lavori in maniera ineccepibile. Hai avuto una giornata pesante. A Villa Roncuzzi, da quel beagle, vado io. A domani Fabio, e grazie”.
“D’accordo, Angelica. Se avessi bisogno di una consulenza, non hai che da telefonarmi. A presto, cara” disse Fabio in tono partecipe e riattaccò.
“Cara? Non me lo aveva mai detto prima” pensò Angelica lusingata, che accennò a un timido sorriso.
Si rivestì in fretta, prese la borsa di cuoio ed uscì. Di buon passo percorse le poche centinaia di metri che la separavano da Via Della Libertà. Il cancello di Villa Roncuzzi era aperto. Entrò con la bizzarra sensazione di esserci già stata. Le parve che la rosa bianca, l’unica rimasta intatta nella pensilina in ferro e vetro sovrastante il vialetto d’ingresso, ammiccasse come una stella, tanto era luminosa nella notte. Udì il latrare acuto di una volpe provenire dal lato nord della struttura, oltre il parco dei tigli.
“È il tipico richiamo del maschio che cerca la femmina. Deve essere disperato tanto è insistente. Anche gli animali si amano; a volte più di quanto possiamo farlo noi” trasalì Angelica.
Provò simpatia nei confronti della volpe morta poco prima che sarebbe stato sezionata per scrupolo nei confronti della comunità. Spinse la pesante porta a vetri. Si ritrovò nella hall ben riscaldata. Il chiarore soffuso delle lampade e abat-jour liberty la raggiunse. Due grandi sculture turchesi di ceramica raffiguravano un rospo da fiaba: incoronato come un principe e bonario. La reception era deserta. Angelica udì uno scalpiccio alle sue spalle. Si voltò. Le si fece incontro Donna Patrizia. Vestita semplicemente di rosso, dal sorriso cordiale, rassicurante.
“Grazie di essere arrivata così presto, dottoressa Flor. Rolfy non sta per niente bene. Astrid ed io siamo preoccupate. Più che una cliente la signora Sorensen è un’amica. Da anni viene qui con il beagle, che è sempre stato in forma smagliante. Non so che cosa gli sia accaduto all’imbrunire nel parco dei tigli. Abbaiava, poi ha uggiolato dolorante. É sopraggiunto un animale, che poi è fuggito. L’avrà aggredito? Abbiamo visto Rolfy accasciarsi. Non si è più ripreso. Non vuole mangiare, non si muove. A San Pancrazio siamo fortunati… Lei è una ottima veterinaria: una vera risorsa” disse convinta.
Angelica ricambiò la stretta di mano e il sorriso. Mormorò: “Grazie. La fortuna è reciproca”.

4) FINALMENTE A CASA.
In quell’istante, si sentì bene: accettata, stimata, benvoluta.
“Finalmente a casa” pensò.
Si guardò attorno, gioiosa. Lo spazio, dilatato dagli specchi, arricchito dai quadri e da alcune statue, sembrava avvolgerla in un caldo abbraccio. Avrebbe eletto Villa Roncuzzi a luogo dell’anima?
“I suoi occhi color del cielo brillano…” notò Donna Patrizia.
“Non immaginavo che il relais fosse così accogliente” ribatté Angelica.
Subito si ricompose, come le aveva insegnato Augusta, che non lasciava mai trasparire emozione alcuna. A volte il volto della madre la turbava; era ieratico come quello dell’imperatrice Teodora, immortalata nel mosaico di San Vitale a Ravenna.
“Dov’è Rolfy?” chiese in tono professionale, consapevole di avere a che fare non con un semplice cane, ma con l’affettuoso e sensibile beniamino di Astrid Sorensen. Insomma con un membro della grande famiglia di Villa Roncuzzi.
“Salga la scala, prima porta a sinistra, camera numero dieci. È la suite “Gufo delle Nevi”, che il capitano Sorensen preferiva perché dà sull’antica corte. Da quando non c’è più… Astrid mi chiede sempre di riservargliela” rispose Donna Patrizia con aria di circostanza.
“Capisco…” ribatté Angelica compunta.
S’incamminò a passo svelto nel corridoio. Quando raggiunse il primo piano, bussò leggermente. La porta si aprì dopo qualche secondo. Si stagliò sulla soglia una donna alta, ben fatta, dai corti capelli di un biondo cenere e dall’incarnato lunare. Spiccavano gli occhi arguti, indagatori, dalle iride così chiare da sembrare trasparenti. Il rossetto color peonia s’intonava alla veste da camera in morbido velluto dello stesso colore. Poteva avere settanta anni. Sorrise sollevata. Poi, istintivamente, Astrid passò la mano sul collo nudo. Chinò il capo, il viso atteggiato a una smorfia di disappunto.
“Entri, dottoressa Flor” disse in perfetto italiano.
Angelica si ritrovò in un’ampia stanza dal soffitto con le travi di legno. La inondava l’intenso profumo delle rose rosa che occhieggiavano dal vaso di ceramica lilla posto sulla specchiera. C’era un pianoforte verticale dalla parte del grande letto, ricoperto da coltri e cuscini di un ricco tessuto fucsia. Di fronte, il divano sui cui giaceva Rolfy. Su una coperta blu, a occhi chiusi. Non si mosse quando Astrid, che gli si era seduta accanto, lo accarezzò sulla testa e sul mantello pezzato. Se lo pose in grembo. Rolfy uggiolò, sofferente. La delicata musica barocca del Canone in Re Maggiore di Pachelbel era in sottofondo. Proveniva dal lettore cd, dall’angolo in penombra accanto alla finestra. Angelica contemplò Rolfy e Astrid. “Dama danese con cane” poteva essere il titolo del loro ritratto, eseguito da uno specialista di interni e di nature morte. L’inglese William Hogarth, maestro del genere nel diciottesimo secolo, per esempio.
“Un luogo da fiaba è Villa Roncuzzi, con personaggi di un mondo a sé” desunse Angelica.
Trattenne il respiro. Posò la borsa di cuoio sul tappeto beige arabescato. Astrid si torse le mani, disse con voce incrinata dal pianto:
“L’ansia mi attanaglia. La supplico di salvare Rolfy. È l’unico essere vivente che mi sia rimasto accanto dopo la scomparsa del capitano Sorensen. Mio figlio… mio figlio Noah ha voluto seguire le orme del padre. Anche lui è entrato in Marina. In giro per il mondo, torna a casa ogni sei mesi”.
Angelica notò che oltre la fede nuziale, all’anulare sinistro portava un magnifico solitario montato in oro bianco. Del tutto simile a quello che Emanuele le aveva dato tre anni prima giurandole amore eterno. Angelica se l’era sfilato dal dito quando l’aveva lasciata. Non ricordava neppure dove l’avesse riposto. Era stata addirittura tentata di gettarlo nel Montone durante una passeggiata solitaria sull’argine. La musica di Pachelbel cessò.
“Farò il possibile. Se le condizioni di Rolfy sono gravi, predispongo il ricovero in clinica questa notte stessa. Devo visitarlo, è in grado di aiutarmi?” soggiunse sottovoce.
Si mise i guanti di lattice. Prese lo stetoscopio dalla borsa. Colta da una improvvisa curiosità, non poté fare a meno di chiedere:
“Signora Sorensen, mi scusi, ma… Non ha tentato di impedire a Noah di diventare marinaio?”
“Certo che no! Sarei stata un’egoista. Anche se disapprovavo la sua scelta, ricordo che mi congratulai. Gli feci capire che sarei stata orgogliosa di lui. Cosa devo fare con Rolfy?” ribatté Astrid.
“Lo giri piano sul dorso. Devo auscultare il cuore” rispose Angelica.
Risentita, pensò a quanto i suoi genitori invece le avessero fatto pesare l’iscrizione alla facoltà di veterinaria. Poi però ricordò la cura, la dedizione assoluta con cui l’avevano cresciuta e, in cuor suo, li perdonò. Docile, Rolfy si lasciò visitare. Aprì gli occhi e fissò Astrid come per chiederle spiegazioni.

5) IL MEDAGLIONE DEL DRAGO.
“Gli manca solo la parola. Anche mio marito diceva che Rolfy è molto intelligente. Lo salvò. È nato in un allevamento che, di nascosto, forniva i beagle a una casa farmaceutica per la sperimentazione scientifica. Denunciò il direttore. Rolfy è sempre stato legatissimo al suo padrone. Quando morì, rimase ad aspettarlo per giorni. Stasera passeggiavamo nel parco dei tigli. Ho sfortunatamente perso il medaglione del drago. Non me lo perdonerò mai… Ero nervosissima. Ho chiesto a Rolfy di cercarlo. Si è allontanato, lui che è diventato la mia ombra” mormorò Astrid, lo stomaco serrato dal senso di colpa.
“Il battito del cuore è flebile, ma regolare” sentenziò Angelica, che si tolse lo stetoscopio.
Sgranò gli occhi. Volle sapere:
“Il medaglione del drago?”
“Sì. Catena ed effige antichi in argento. Mio marito lo aveva trovato in una tomba vichinga nel nord della Norvegia. Congedatosi dalla Marina, si dilettava di archeologia. Quando me lo diede, mi raccomandò di non toglierlo mai perché il drago mi avrebbe protetta. Ogni nave vichinga ne aveva uno a prua per allontanare gli spiriti maligni. I guerrieri solcavano il Mare del Nord, impavidi. In battaglia erano sempre vittoriosi. Io… io non avrei mai dovuto perdere il medaglione”.
Angelica rimase ammaliata dalla voce rauca di Astrid. Le aveva appena svelato il segreto del drago dei fiordi che era stato un simbolo di forza, coraggio e conoscenza. I vichinghi non gli avevano attribuito nessuna connotazione negativa come invece era accaduto altrove.
“Voglio che il drago mi protegga dall’infelicità, che è sempre in agguato. Anche da me stessa… Non sarò più la mia peggiore nemica; devo allontanare le tenebre per vedere di nuovo la luce del sole” decise.
Guardò il tatuaggio sul polso sinistro. Il piccolo drago era dunque suo alleato. Sarebbero stati insieme per sempre. Angelica avrebbe reagito all’apatia che si era impossessata di lei. Avrebbe dimenticato Emanuele, di indole superficiale. Cambiava spesso idea, auto e amicizie. Non valeva davvero la pena arrovellarsi inutilmente ad individuare il motivo del suo biasimevole comportamento. Angelica respirò a fondo il profumo delle rose rosa e s’inebriò. Si sentì vaga, la testa leggera. La leggenda contiene una parte di verità, il mito spiega l’origine del mondo, la fiaba abbonda di meraviglioso… Angelica aveva scelto di vivere a contatto con l’anima vera della Romagna e non se ne sarebbe mai pentita. Forse, se avesse seguito l’esempio dei favolari di San Pancrazio, sarebbe addirittura riuscita a comprendere il linguaggio degli animali, di cui si prendeva cura. Le avrebbero svelato il mistero della loro esistenza priva di parola, ritenuta, a torto, inferiore. Angelica fissò Rolfy. Sobbalzò quando si accorse che aveva occhi dolci, comprensivi. Occhi umani. Era certa che capisse le sue buone intenzioni. Cominciò a esaminarlo attentamente. Partì dalle lunghe orecchie. Passò a toccare il collo, il dorso, le zampe. Finalmente vide la piccola ferita infetta. Ancora aperta all’altezza dell’anca destra: il morso di un animale dagli incisivi affilati. Non poteva però essere la sola causa del torpore, della mancanza di vitalità di Rolfy. Mostrò la ferita a Astrid che si portò le mani al volto, inorridita.
“La volpe! È stata quella dannata volpe! Cercava del cibo. L’ho vista entrare nel parco dei tigli”.
“È probabile che dovesse sfamare i cuccioli e tornare il prima possibile nella tana sotto l’argine del Montone. È stata investita da una macchina. Il mio collega mi ha riferito che forse era affetta da rabbia. Sono in corso gli accertamenti del caso”.
“Rolfy ha fatto l’antirabbica in Danimarca prima che partissimo”.
“Meno male… La ferita va medicata al più presto. In clinica c’è tutto quello che serve. Non credo però che possa causargli torpore e mancanza di vitalità al punto da rifiutare il cibo. Ci deve essere un’altra causa”.

6) VITA IN CLINICA.
“Ha fallito nel tentativo di ritrovare il medaglione del drago. Gli animali percepiscono il potere dell’amore, l’incantesimo che lega indissolubilmente due anime compagne nel cosmo, anche oltre la vita. A casa, Rolfy sale nella poltrona di mio marito come se volesse dirmi che è ancora tra noi”.
“Forse aveva trovato il medaglione, che era impregnato del suo odore, signora Sorensen. La volpe è un predatore onnivoro. Credeva che Rolfy avesse in bocca della carne e non ha esitato ad attaccarlo”.
“Lei è perspicace, dottoressa Flor. Ha l’aria stanca. Gradisce una tazza di tè?”
“Sì, grazie”.
Astrid divenne materna. Depose Rolfy sulla coperta blu. Si alzò. Dal vassoio prese la teiera di sheffield. Versò il liquido fulvo e bollente nella tazza di limoges. Aggiunse un’ombra di latte.
“Zucchero?”
Angelica, che da tempo aveva già digerito gli involtini primavera e sentiva ancora appetito, rispose: “No, grazie. Gradirei qualche biscotto”.
Astrid le porse la scatola dei cookies al burro. Ne prese quattro. Sorseggiò il tè, che la rinfrancò.
“Spero che Fabio… il dottor Cortesi sia ancora in clinica. Siamo abituati a collaborare. Rolfy dovrà essere tenuto in osservazione per qualche giorno. Ritengo che sia d’obbligo la profilassi antibiotica. Lo chiamo al cellulare”.
“Nel frattempo vado a cambiarmi. Voglio accompagnare Rolfy in clinica”.
Astrid sparì nella piccola stanza adibita al guardaroba della suite.
“Pronto, Fabio. Scusami, ma il beagle di Villa Roncuzzi ha una profonda ferita all’anca dovuto al morso di un predatore. La proprietaria e Donna Patrizia hanno visto una volpe aggirarsi nel parco dei tigli. Forse è la stessa che poi è stata investita. Rolfy ha bisogno di essere ricoverato. Sei in clinica?”
“Angelica cara… Sì, sono ancora qui. Ti avrei chiamato io, se tu non mi avessi preceduto. Da quando faccio il veterinario non mi era mai capitato nulla di simile. Ha davvero dell’incredibile…”
“Cosa è successo?”
“Quella volpe era sana. È morta per soffocamento”.
“Soffocamento? Impossibile… è un canide territoriale, temibile; riesce a inghiottire anche le ossa delle prede”.
“D’accordo, ma forse un esemplare di femmina non può deglutire un ciondolo con un drago messo di traverso attaccato a una grossa catena d’argento. L’ho estratto dall’esofago. Il gioiello è lavato e disinfettato. È di valore. Dovrò portarlo in Questura. L’ho messo in una busta”.
“Il medaglione di Astrid Sorensen!”
Angelica si agitò. Scattò in piedi.
“Per caso è la padrona del tuo paziente?” chiese Fabio con calma.
“Sì. L’ha perso nel parco dei tigli e non si dà pace. Per lei, quel drago vichingo ha un significato speciale,” soggiunse Angelica.
“Anche per me” pensò.
“Rassicurala. Il suo medaglione è in buone mani”.
“Lo farò. Grazie, Fabio… Non immagini quanto sarà contenta. Ci aspetti in clinica? Stiamo per partire da Villa Roncuzzi. Non vorrei praticare l’anestesia generale a Rolfy. È debole. Avrò bisogno di te”.

7) ROMANZO D’AMORE.
“Mi troverai qui, ad aspettarti. Ora e per sempre rimarrò al tuo fianco…” disse Fabio con voce tenera. E poi, in tono lievemente ironico per sdrammatizzare la solennità del momento: “Ho già fatto due ore di straordinario. Non importa se dovrò passare in piedi tutta la notte. Credevo di eseguire dei normali accertamenti su un animale deceduto in maniera sospetta e invece ho recuperato un antico medaglione scandinavo. Chissà cosa succederà prossimamente in clinica… Potrei cominciare a scrivere un romanzo di avventure”.
“O forse d’amore. Perché non facciamo della nostra vita un lungo e appassionante romanzo d’amore? Avremo la costanza di scrivere una pagina al giorno se proviamo gratitudine per la nostra terra, accettiamo le sfide, vinciamo l’egoismo e ricordiamo di essere collegati gli uni agli altri: esseri umani, animali, alberi, rocce, acqua di oceano e di lago. Il fil rouge non si deve mai spezzare” riprese Angelica con veemenza.
Si stupì di se stessa. Mai aveva osato esternare né idee, né sentimenti con tanta convinzione. Aveva sempre taciuto per non urtare la sensibilità altrui. Come per incanto, si sentì liberata dal peso dell’educazione perbenista, che aveva ricevuto.
“Sei straordinaria. Sì, scriveremo un romanzo d’amore: il nostro, e durerà tutta la vita. A tra poco, Angelica” mormorò Fabio commosso.
“I suoi occhi color del cielo brillano…” notò Astrid, sopraggiunta con indosso una bianca pelliccia ecologica.
Le porse un cofanetto istoriato.
“A nome di Rolfy, grazie della sua umanità; è una qualità rara oggigiorno” continuò.
Angelica lo prese tra le mani. Lo aprì e non poté trattenere una esclamazione di sorpresa quando vide il modellino in legno policromo di una nave vichinga. A prua, la testa fiammeggiante del drago.
“Da bambino, a Noah piaceva intagliare il legno. Il Capitano Sorensen lo portò al Museo della Civiltà Scandinava. Si divertì a visitarlo. S’ispirò al relitto di una nave vichinga, ritrovato su una spiaggia dello Jutland cento anni fa. Noah ha scolpito e pitturato decine e decine di piccole navi. Ha sempre amato il mare e la vita all’aria aperta. Come avrei potuto trattenerlo in terraferma?” disse Astrid allargando le braccia in segno d’impotenza.
“È bellissima… Da bambina non mi piaceva studiare il pianoforte, ma ero obbligata a farlo. Non capivo che la musica fosse una preziosa disciplina di vita. Volevo smettere di frequentare il conservatorio, ma la mamma insistette perché continuassi. Mi diplomai. Devo ringraziarla. Credo… credo che ricomincerò a suonare il pianoforte partendo da Pachelbel” soggiunse pensosa Angelica.
Passò le dita sui tasti color avorio dello strumento datato. Si udirono le prime note del Canone in Re Maggiore. Rolfy alzò un orecchio. Astrid accennò un applauso.
“Informerà sua madre? Ne sarà felice” azzardò.
Angelica fece un cenno di assenso e si asciugò una lacrima. Chiuse il cofanetto e lo ripose nella borsa di cuoio. Prese tra le braccia Rolfy avvolto nella coperta blu. Lo passò in quelle di Astrid, che lo strinse a sé.
“La prego di dire a Noah, quando lo vedrà, che è un bravo scultore” disse Angelica.
Anche Astrid fece un cenno di assenso e si asciugò una lacrima.
Fuori dalla camera numero dieci, scesero le scale lentamente; in silenzio per non disturbare gli altri ospiti. Uscirono dal caldo grembo di Villa Roncuzzi, in cui entrambe avevano ritrovato la serenità. La nebbia e il freddo si fecero loro incontro. La notte sapeva di foglie calpestate. Camminarono una vicina all’altra. Erano certe che un giorno si sarebbero incontrate ancora nel Paese delle Fiabe, o su una duna di sabbia dello Jutland a contemplare due mari. Si scambiarono un semplice sorriso d’intesa.
“L’amicizia è un dono divino, che…” iniziò Astrid.
“Nessuno potrà mai toglierci” concluse Angelica.